Parlano di Ulisse

Mario.

 

1.

Se mi avessero chiesto di parlare di Ulisse
e descriverlo con un termine solo…
Se dovessi rinchiuderlo in una sola parola
– e non è detto che ci si possa riuscire –
quale, davvero, potrei usare?
Ci ho pensato e ripensato…
e se ciò s’ha da fare,
allora io dico “genio”.

Ulisse, per me, era un genio.

Non perché sapesse un sacco di cose
… perché nessun maestro, a dire il vero,
conosce quel sacco di cose.
Ma quando parlava, tu l’ascoltavi.
Si rimaneva, a volte, quasi incantati
da quel suo modo di fare, di porsi, di raccontare,
di divertire, far ridere, giocare, sognare…

Ulisse era un genio:
non per ciò che sapeva,
ma per come ce lo diceva.
Quando poi ti guardava, fisso,
anche senza parlare…
allora, senza volere o potere,
capivi che Lui aveva ragione!

Nella sua classe non si andava a lezione:
semplicemente si andava incontro alla vita.
La scuola era un gioco:
continuo, odierno, quotidiano.
Un intervallo che durava per sempre.
Il banco di scuola, io, non lo ricordo nemmeno.
O meglio… sapevo che c’era, era lì,
e ogni tanto pure ci si sedeva.
Ma la scuola, per noi, era altro.
Le stanze, i muri, quel silenzio a volte opprimente…
tutto questo non c’era.
La scuola, come la porta d’ingresso, era aperta:
si spalancava assieme a tutta la nostra curiosità.

Ecco: Ulisse ci divertiva e ci incuriosiva.
E assieme, giorno per giorno,
con tutta la gioia e l’ingenuità dei bambini,
ci conduceva incontro alla vita!

2.

Ulisse, mi metti un UA70? – gli chiesi un bel giorno.
Dovete sapere che alla fine del foglio, nelle pagine
del nostro quaderno, Ulisse metteva una sigla (forse perché
i genitori vedessero che i compiti erano stati visti o corretti).
Nel quaderno, infatti, non c’erano voti…  c’erano solo degli UA70,
rigorosamente in rosso e in bella calligrafia.
“Perché vuoi un UA70, Marione?”
“Perché il mio babbo mi da un soldino per ognuno di loro.”
Ulisse, quel giorno, riempì pagine e pagine di UA70.
Con mia grande gioia e… soddisfazione!

3.

A scuola potevamo fare ciò che più ci piaceva:
a me piaceva molto la matematica e così ne facevo tantissima.
Avevo i quaderni pieni di conti. Apposta facevo delle operazioni
così lunghe che a fatica entravano nei due fogli del quaderno aperto.
Mi divertiva farle così lunghe non tanto per la difficoltà, ma perché
sapevo che prima o poi avrei obbligato Ulisse a controllarle,
caso mai avessi commesso un errore.
Dopo le operazioni elementari fu la volta delle radici quadrate,
che a quel tempo ancora si facevano a mano…
E che Ulisse mi aveva insegnato.
Finite anche quelle bisognava passare alle radici più complicate:
la fantomatica estrazione delle radici cube.
Ma quelle, purtroppo, il maestro non le sapeva
e dunque, diceva, non me le poteva insegnare.
Ma io, mi sarei mai permesso di restare così indietro?
Mi sarei mai dato per vinto?
Dopo aver indagato (pareva, infatti, che in nessun libro di testo –
superiori comprese – quell’argomento fosse trattato),
trovai che sulla grossa “Enciclopedia dello Studente”
(che gelosamente tenevo sulla mia scrivania) l’arcano fosse spiegato.
Fu con gran soddisfazione che, il giorno seguente,
mi ripresentai col grosso volume nella cartella:
“Ecco, Ulisse, guarda cos’ho trovato.
Adesso non hai più delle scuse, me le dovrai insegnare!”
Era per me una gran soddisfazione, quella di far studiare il maestro.
Ma, ancora di più, assaporare il gusto di nuove scoperte.
“Studia, Ulisse… studia!”

4.

Ulisse, più che maestro, era un amico.
E lo era anche fuori di scuola.
Quell’inverno mi serviva una cuffia,
ma in casa i soldi erano pochi.
“Ci troviamo più tardi – disse – in ghiaia”.
Ci siamo trovati e abbiamo iniziato a girare per bancarelle;
non una, due, qualcuna…
Tutte, … ma proprio tutte.
Perché nessuno voleva vender la cuffia
al prezzo proposto da Ulisse.
“A così poco ci rimettiamo” – dicevano loro.
Allora si continuava a girare,
e lui a insistere, insistere e insistere ancora.
Non ricordo come sia andata a finire,
ma nell’armadio ho ancora una vecchissima cuffia di lana.
Ecco… questo era Ulisse.

5.

Cosa si fa in un giorno di scuola?
E ancora, provatevi a chiedere,
che si fa in tre, quattro, cinque anni di scuola?
Tantissimo… se si è fortunati,
e io penso proprio di esserlo stato.
Una vera, immensa fortuna:
tre indimenticabili anni che avrei voluto
non finissero mai.

“Vieni alle Medie con noi…” supplicavamo in coro comune.
“Non posso, bambini, non posso” – diceva.
E nessuno di noi riusciva davvero a capirne il motivo:
perché mai Ulisse non poteva venire a insegnarci anche alle Medie??

Ma torniamo alle fortunate giornate di scuola che abbiamo vissuto.
Già… vissuto… perché le abbiamo proprio vissute
nel migliore e più pieno dei modi.
Si giocava di continuo, ma questo già l’ho raccontato:
non c’erano compiti a casa, né si portava il grembiule,
ma ciascuno aveva un suo soprannome.
Non ho raccontato ciò che, giocando, facevamo;
perché qui un foglio non basta.

La scuola era un laboratorio continuo:
si inventava, si decideva, si faceva ricerca, si litigava, si riprovava…
Non saprei come farne un elenco.
Dal giornalino di classe al ciclostile e alla tipografia,
dagli origami di carta ai lavori col cuoio,
dalla storia alla sua costruzione coi burattini,
dalle ricerche sul territorio alle interviste dirette,
dalla scoperta di Roma – col suo parlamento –
alle grandi navi da crociera del porto di Genova,
dagli studi di musica sperimentale alle operette del “Regio”,
dalle visite universitarie al laboratorio di fotografia,
dall’economia domestica ai negozietti dover fare la spesa,
sino alle uscite – in autobus – per conoscere i nostri stessi quartieri.
Uno sconfinato, immenso cantiere, dove ci si metteva alla prova
sfidando e confrontandoci con gli altri ma anche verso noi stessi.

Potrei forse non ricordarmi del sogno proibito di Ulisse?
Quello di andare in strada a vendere la famosa “pattona”?
Ebbene, abbiamo fatto anche quello!
Potrei forse dimenticare la meravigliosa gita al castello di Specchio,
dove in un’assolato terreno di gioco occorreva conquistarne le mura?
Potrei non citare il quadernetto dedicato allo studio della Resistenza,
che per anni mi sono ritrovato ora in una stanza, ora nell’altra?
O forse qualcuno di noi si è dimenticato di chi era la “Boia”?
(diceva, Ulisse, di conoscere una vecchia stregona che stava dalle sue parti)

E poi, come dimenticare la Storia raccontata da Ulisse?

Già… perché a raccontare le storie,
chi lo sapeva fare, meglio di lui?
A volte gridava, urlava, si agitava, mimava…
usava il dialetto in voga negli antichi sobborghi
e ci faceva morire dalle risate.

Chissà – Ulisse – quante Storie si è inventato
e ha saputo piegare alla sua fantasia:
pur di vedere brillare, nei suoi amati scolari,
un infinito sorriso di eterno ringraziamento!

Mario