PARLANO DI ULISSE

014Giovanni.

Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su di te mi sono sentito un po’ in dovere, perché in fondo mi pareva opportuno che la memoria della tua persona fosse messa in buone mani. Però, diciamocelo, sono passati venticinque anni, più di due lustri, un quarto di secolo, il tempo di un’intera generazione, insomma sono passati molti anni dall’ultima volta che ci siamo incontrati. Se la nostra amicizia si fosse interrotta a causa di uno screzio, sono cose che succedono, non so se dopo tanto tempo ne resterebbe qualcosa in più di una pallida memoria. Ma l’interruzione era dovuta ad altro.

Ciò che mi dispiace è che le ultime volte che ci eravamo visti non ti avevo trovato troppo bene, e non mi riferisco a quegli ultimi tragici incontri in cui ti vidi attendere la morte, di quei giorni ho troppo dolore per volerne scrivere o ricordare, io mi riferisco a prima, alle ultime volte in cui ci siamo incontrati, quando ti avevo trovato triste e meditativo. Mi ricordo che tenevi il volto basso, rivolto a terra, in una posa che non ti era inconsueta, eravamo a Parma, in via Farini, nei pressi del centro, e non so perché quel giorno facemmo una passeggiata. Mi parlasti di te, delle tue ambizioni, mi sembravi afflitto. Non ti avevo conosciuto per essere una persona troppo allegra, non eri uno che andasse in giro a fare bisboccia con gli amici, eri sempre piuttosto concentrato in te stesso, piuttosto misurato, anche se possedevi un’ironia simpatica e felice, a tratti satirica, di uno scherzoso sarcasmo emiliano.

Ma una di quelle ultime volte che ci eravamo incontrati mi eri sembrato affranto, non ricordo con precisione che periodo fosse, forse era un settembre in cui ci si ritrova con vecchi amici per fare il punto della situazione e chiarirsi sui prossimi obiettivi. Un settembre in cui la luce dolce dell’autunno si diffondeva lieve e delicata per le vie del centro cittadino, illuminandone i particolari, lasciando sorgere un sentimento di speranza, di tempo a venire. Una luce che è l’atmosfera delle cose che si preparano, una luce misurata, mai eccessiva. E allora tu parlavi ed io ti ascoltavo, mi dicesti che non avevi più voglia, che non volevi più, che intendevi desistere. Io ti ascoltavo e mi dispiaceva trovarti deluso ma allo stesso tempo pensavo che forse era meglio così, era davvero molto meglio così, che potessi avere una seconda possibilità, che cercassi un nuovo percorso di vita. Non ti avevo palesato il mio sentimento, non te ne avevo parlato, ero stato ad ascoltarti come un buon amico.

Avevamo fatto una passeggiata, il centro città era nuovamente pieno di gente dopo l’estate, e ci eravamo diretti verso piazza del Duomo. L’acciottolato sotto i piedi rendeva incerto l’incedere dei passi, ancheggiavi un poco, eri pensieroso, ed io mi guardavo intorno e ascoltavo ciò che avevi da dirmi, quella sorta di lamento che volevi comunicarmi. A cosa servono gli amici, mi ero detto, se non a questo paziente ascoltare? Il Duomo lo lambimmo girando intorno al Battistero che si erge lì di fianco per poi tornar su lungo una via che ci avrebbe riportati al punto di partenza, nei pressi del Comune, e mi avevi detto parole di questo tenore: “Potrei, ma non me la sento più, non posso.” Non so se avessi già in mente una vita diversa da quella della politica attiva, non so se avessi già in mente una strada diversa dopo tanti anni di insegnamento nella scuola elementare, ma era questo che mi dicevi e lo dicevi con una certa malinconia, come un desiderio di abbandono che non avesse ancora chiaro il successivo obiettivo da raggiungere.

In passato eri stato anche per due anni nostro maestro, in una classe piena di sogni e di speranze che tutti insieme condividevamo, alunni ed insegnati. Eri stato anche un politico importante nella nostra città di Parma, avevi una visione di lungo termine, un progetto vero che in parte avresti visto realizzato ma che in gran parte si sarebbe realizzato dopo la tua scomparsa, confermando la lungimiranza di quella visione politica. Tua moglie Carla ha conservato un archivio di tutti i tuoi interventi alla Gazzetta di Parma e in Consiglio Comunale che testimoniano come il tuo investimento nella politica fosse di antica data, quando eri un ragazzo, un giovanissimo maestro elementare. Sei stato un uomo di successo, un uomo che ha raggiunto lo scopo delle proprie ambizioni, con tenacia, con costanza, credo anche con una certa sofferenza, perché il successo nella vita non è figlio solo dell’intelligenza ma anche di una capacità di attendere, di sopportare, anche di questo mi avevi parlato, come delle notti insonni in cui il male alla schiena ti attanagliava.

Ma in quei giorni di settembre mi dicevi altro, mi parlavi da amico, e mi dicevi: “Non me la sento più.” Non mi era sembrato che ci fosse innanzi a te un ostacolo, una forza maggiore, qualcosa che ti impedisse di andare avanti per la strada che avevi percorso da molti anni, o forse volevi sviarmi da qualcosa che sapevi e non volevi dirmi, ma a me era sembrato che fossi stanco, che desiderassi cambiare il passo della tua vita. Io sono un atleta, un corridore, e ti posso garantire che capisco certe cose, capisco la fatica e il desiderio di cambiare ritmo. Non so esattamente cosa avessi approntato per il tuo futuro, quali nuovi obiettivi ti fossi prefisso, forse ti aspettavi un ruolo istituzionale, forse avresti dovuto incanalare le tue risorse in altri settori. Negli ultimi tempi avevi anche lavorato molto come scrittore, la tua attività di trascrizione di fiabe si era intensificata, avevi raggiunto anche in quel campo una notorietà, un successo locale, ma non credo che la tua ambizione fosse di diventare uno scrittore in senso stretto, possedevi la capacità di affabulare, ma non ti avrei visto seduto tutto il giorno davanti al computer.

Provenivi da una famiglia umile della bassa parmense, eri orfano di padre, era disperso in Russia da soldato, tua madre era una umile operaia che pagava un prete disonesto perché gli divinasse che fine avesse fatto suo marito; avevi avuto un’infanzia infelice, lo racconti tu in un intervista, e da bambino avevi conosciuto anche gli strascichi cruenti della fine della guerra in Europa. Eri un uomo che si era fatto da solo attraverso un lungo percorso, di studio e di relazioni, e per questo credo avessi in serbo qualcosa di importante per il tuo futuro. Però in quegli ultimi mesi della tua vita molte cose stavano cambiando, e non solo in te stesso, come ho cercato di ricordare, ma anche nel mondo che ci circondava. Non avresti avuto modo di vedere compiuti quei cambiamenti che avvenivano intorno a noi, la malattia avrebbe avuto un decorso più veloce dei mutamenti sociali in atto. Ma il mondo che avevi conosciuto era un mondo che stava finendo e dopo ci sarebbe stato un altro mondo, nuovo e differente. Il muro di Berlino era caduto due anni prima della tua scomparsa e la prima Repubblica in Italia sarebbe caduta con tangentopoli l’anno successivo. Poi tutto sarebbe stato diverso da come era stato in passato.

Non so se tu avessi intuito tutti i profondi cambiamenti sociali che avvenivano in quegli anni, non so se fossi pronto ad affrontarli, avrebbero significato un trauma profondo nella tua generazione; finiva infatti un sistema politico durato quasi cinquant’anni, quasi quanto il corso della tua vita. Credo che fossi attrezzato per superare quel cambiamento, credo che ne avessi i mezzi intellettuali e morali – avevamo parlato di don Sturzo e di De Gasperi e del valore della persona nella pratica politica e della libertà individuale – ne avevamo parlato a lungo del senso della politica e dei suoi scopi. Tuttavia, come ho cercato di spiegare, nel momento in cui quel mondo in cui avevi vissuto per quasi cinquant’anni stava per finire, tu avevi altre intenzioni, avevi il desiderio di percorrere una nuova strada.

Mi eri sembrato triste e meditativo quel giorno di settembre e ho creduto di averti ascoltato con pazienza, come avrebbe fatto un buon amico.

Giovanni Costa